IL DRAMMA DI ALDO MORO TRA PAOLO VI E PAPA FRANCESCO
di Maria Antonietta Calabrò
Si è vociferato per anni che papa Paolo VI aveva tentato in ogni modo di salvare lo statista Dc anche pagando un’ingente somma alle Brigate Rosse. Si è parlato di una cifra pari a 50 miliardi di vecchie lire messa a disposizione dallo IOR.
Invece non fu così. Sappiamo come andò solo da quando il 4 dicembre 2017 monsignor Fabio Fabbri, che fino al 1999 è stato il vice ispettore dei cappellani delle carceri italiane, braccio destro dell’uomo che per il Vaticano e il Papa Paolo VI gestì le trattative con le Brigate Rosse, cioè il capo dei cappellani delle carceri don Cesare Curioni (deceduto nel 1996), ha testimoniato davanti alla Commissione Moro 2.
«I soldi recavano la fascetta di una banca estera, precisa- mente israeliana, di Tel Aviv» – ha detto Fabbri.
Del resto io conosco bene i caratteri ebraici. Il denaro era in una sala della residenza di Castel Gandolfo, ricordo sotto una coperta di ciniglia azzurra, e mi furono mostrati direttamente dal Santo Padre, era una bella montagnetta alta almeno mezzo metro. Questa somma a quanto mi riferì don Curioni fu ottenuta grazie all’impegno personale di un imprenditore israeliano che si occupava di pelletteria e di scarpe.
In base agli accertamenti della Commissione Moro 2, chi mise a disposizione del Papa e della Santa Sede la somma del riscatto per ottenere la salvezza di Moro, era un uomo d’affari israeliano di origini francesi Shmuel «Sammy» Flatto-Sharon, che all’epoca del sequestro era membro del- la Knesset dove rimase parlamentare fino al 1981. Richiesto di confermare l’identità dell’uomo, dopo i riscontri ottenuti indipendentemente dall’organismo parlamentare, Fabbri lo ha fatto. «Visto che mi viene fatto il nome di Flatto-Sharon posso dire che il suo nome mi suona in relazione a questa vicenda. Non ho la minima idea di dove sia finito quel denaro dopo il fallimento della trattativa. Lo vidi comunque due o tre giorni prima della morte dell’onorevole Moro».
Quindi il danaro per pagare il riscatto in cambio della vita di Moro era pronto. Era nella villa pontificia di Castel Gandolfo, a disposizione di Paolo VI, il papa amico di Moro.
Già il 19 febbraio 2015 la vicenda era riemersa durante un’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, proprio grazie alla testimonianza di Fabbri.
Ma è solo con il lavoro della Commissione che si è giun- ti, da poco, a fissare i fatti certi. Comprovati anche da altri testimoni. Come per esempio il generale dell’Arma dei Carabinieri Antonio Federico Cornacchia (il cui nome risultò negli elenchi della P2), comandante del Nucleo Investigativo di Roma all’epoca del sequestro, quindi il responsabile ope- rativo delle indagini su Moro, che ha descritto anche come fallì il tentativo di Paolo VI.
Dalla sua deposizione del 5 ottobre 2016 emerge che il tentativo andò in fumo la sera del 6 maggio 1978 (alle 19.40) quando, mentre Cornacchia era nella villa pontificia di Castel Gandolfo, monsignor Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, ricevette una misteriosa telefonata, sbiancò in volto e «ci informa che “tutto è andato a monte”». Anche Cornacchia afferma di aver visto con i suoi occhi, chiusi da fascette con la scritta di una banca, 10 miliardi pronti. “Non li ho contati, ma li ho visti».
L’incontro cui partecipò Cornacchia, però, fu sicuramente in un’occasione diversa, la sera del 6 maggio appunto, e in un giorno successivo rispetto a quella di monsignor Fabbri, Paolo VI inoltre non era presente quando Cornacchia si recò nella residenza pontificia con don Curioni e con il padre francescano Enrico Zucca.
Cornacchia arrivò in macchina con Zucca e con don Curioni, che era solo, non era accompagnato da nessuno. E in
tre quindi entrano nella villa pontificia. «Io il Papa non l’ho visto, ovviamente. I soldi li ha presi in una stanza lì vicino. Ha detto: «Questo è il colonnello Cornacchia, che si interessa di Moro». I soldi erano fascettati, erano raccolti. Erano sistemati, da consegnare. Pronti da consegnare. Questo il 6 maggio sera. Ebbe questa telefonata. Lì c’era soltanto monsignor Macchi (il segretario di Paolo VI).
(…) Il telefono squillò mentre noi stavamo parlando. Dopo le 19.40 circa squilla... don Macchi... va a rispondere [...] No, della telefonata non sappiamo. Ritorna e dice: «Monsignore – fa vicino a don Curioni – non possiamo far nulla. Ci hanno bloccato». L’unica cosa, doveva essere spontaneo da parte mia chiedere chi aveva telefonato, ma non mi sono permesso, sinceramente.
Quindi Cornacchia non ha idea di chi fosse l’interlocutore telefonico di monsignor Macchi.
Andreotti era d'accordo a pagare il riscatto
A fine aprile del 1978 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti nei suoi Diari (quelli pubblicati, da Rizzoli nel 1981) annotava, con riferimento a monsignor Macchi: «Monsignore assicura che continueranno nella ricerca» nonostante si fosse compreso che le Br «non vogliono intermediazioni né denaro», ma il 5 maggio coglieva l’occasione di puntualizzare: «Se fosse questione di denaro, sia noi che il Vaticano saremmo all’altezza», adombrando quindi la possibilità di un intervento anche del Governo italiano.
Fu allora che Andreotti riferiva la circostanza che un de- putato israeliano aveva pubblicamente offerto dei soldi per
la liberazione di Moro e che Macchi gli aveva chiesto «approfondimenti» in merito alla proposta. Per quanto concerne il pagamento di un riscatto, Andreotti, consultata la maggioranza, diede, all’inizio di aprile, l’assenso del Governo.
Che nella residenza estiva del Papa si fossero tenuti nella primavera del 1978 incontri riservati riguardanti il sequestro, lo dimostrano decine di evidenze, tra intercettazioni telefoniche e testimonianze, rimaste segrete o riservate fino a tempi recenti.
Sulle riunioni svoltesi a Castel Gandolfo, subito dopo la fine del sequestro di Moro, scese una coltre di assoluto riserbo pubblico, che solo da poco è andata diradandosi.
Gli incontri di Castel Gandolfo
Di quegli incontri erano a conoscenza, ad esempio, il professor Giuliano Vassalli, Nicola Rana, il segretario particolare di Moro per venticinque anni, e il giovane viceparroco di Santa Lucia, don Antonio Mennini. Che la questione fosse assai delicata lo rivela anche una delle ultime intercettazioni tele- foniche del numero di don Mennini nel corso del sequestro. Il sacerdote, parlando con un monsignore alle ore 14.15 del 9 maggio, dunque due ore dopo la telefonata in cui il brigatista Morucci indicò il luogo in cui era stato abbandonato il cadavere di Moro, comunicò al suo interlocutore che «l’hanno ammazzato» e che «andrà da lui perché ha da dirgli dei segreti».
(…)
Alle 8.12 di mattina del 15 aprile Rana telefonò al professor Giuliano Vassalli, amico di antica data, collega e avvocato della famiglia dell’uomo politico, già deputato del Partito socialista. Nel corso della conversazione, Vassalli rispose con queste parole a una domanda di Rana: «Come io le avevo detto, ieri ero a Firenze e sono tornato tardissimo e già questa mattina dovevo essere a Castel Gandolfo dove ci sono quelle riunioni», lasciando intuire, con quel plurale, l’idea che si trattasse di un fatto non occasionale e di cui il suo interlocutore fosse a conoscenza.
In un’altra intercettazione telefonica, effettuata nel primo pomeriggio del 24 aprile, sull’utenza parrocchiale di don Mennini, utilizzato da Moro per recapitare alcune lettere nel corso della sua prigionia, una donna chiede di lui, si infor- ma se ha saputo dell’ultimo comunicato brigatista e gli viene risposto che il giovane sacerdote è assente, in quanto si trova a Castel Gandolfo.
Don Antonio
Il 9 marzo 2015 si svolge un’audizione di monsignor Mennini a San Macuto davanti alla Commissione Moro 2: smentisce uno dopo l’altro Francesco Cossiga, ministro dell’Interno nel 1978, Corrado Guerzoni, collaboratore di Aldo Moro, il cardinale Loris Capovilla, e il racconto fatto dai brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda a Maria Fida e Luca Moro nel carcere di Paliano. Tutti personaggi che hanno detto e/o saputo che l’allora don Antonio, nel 2015 nunzio vaticano in Gran Bretagna, era entrato nella prigione di Moro, lo aveva confessato e comunicato. O che comunque un sacerdote era entrato nella prigione. «Don Antonio Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo scoprimmo. Ci scappò don Mennini», affermò ad esempio Cossiga poco prima di morire nel 2010.
Nel 2015 monsignor Mennini inanella una sfilza di «no» a conferma delle sue audizioni del 1980 davanti alla precedente Commissione parlamentare e in Corte di Assise nel 1993. Non e’ andato a confessare Moro.
A Palazzo San Macuto il vescovo Mennini è però partito da una premessa «tecnica» che ha fatto discutere: il segreto del confessionale – ha detto – copre non solo la conoscenza dei peccati («E quali peccati poteva avere il povero Moro?») ma anche le circostanze in cui il sacramento si realizza.
«Sono segrete cioè le circostanze della confessione, le modalità, e anche il luogo, la logistica, e questa è una legge divina e non positiva su cui qualcuno può intervenire per modificarla». Poi ha aggiunto un’affermazione di non poco conto: «Neanche il Papa può sciogliermi eventualmente da questo segreto».
Un discorso che ha spinto i parlamentari a chiedersi se in realtà stesse dicendo: io nego la confessione e non posso dirvi altro perché tutto è segreto, ma questa in effetti c’è stata. L’arcivescovo Mennini in ogni caso ha poi smentito una decina di volte:
Non ho potuto confessare Moro e dargli la comunione durante i 55 giorni. Anzi se fossi stato nel covo avrei cercato di fare qualcosa di concreto per liberare Moro, avrei cercato di dialogare con i brigatisti, chiesto di prender me e rilasciare lui e
non mi sarei certo comportato tremante come sono raffigurato nel film di Beppe Ferrara. Oppure avrei cercato di ricordare il percorso per dare informazioni utili per le indagini. (…)
Per ben quattro volte risulta dalle intercettazioni che don Antonio cercò di contattare un ufficiale dell’Arma, e Men- nini nella sua audizione ha confermato che si trattava del generale Cornacchia.
La scelta di Papa Francesco
La decisione di far testimoniare l’allora nunzio apostolico nel Regno Unito davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta Moro 2 è stata presa direttamente da papa Ber- goglio d’accordo con il suo segretario di Stato, Pietro Parolin. Perché è vero che Mennini ha testimoniato sia nel primo processo Moro, sia durante la prima Commissione d’inchiesta. Per la precisione fu ascoltato dagli inquirenti il 2 giugno
1978, il 12 gennaio 1979, poi una terza volta nel febbraio ’79, e comparve davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro il 22 ottobre 1980. Nel 1981 entrò a far parte del servizio diplomatico della Santa Sede, e nel settembre 1986 venne di nuovo ascoltato dalla magistratura che inda- gava sul sequestro.
Ma come ben si vede tutte le sue dichiarazioni risalivano a un periodo anteriore al 1990. Infatti il nunzio Mennini si rifiutò di testimoniare davanti alla Commissione Stragi che, presieduta da Giovanni Pellegrino, ha lavorato per quattro legislature (dalla X alla XIII legislatura, dal 1988 al 2001), trincerandosi dietro lo status di cittadino del Vaticano e il ruolo diplomatico.
Papa Francesco ha scelto di far prevalere la ricerca della verità sulle regole della immunità diplomatica di cui godono i nunzi (gli ambasciatori vaticani), come del resto il personale diplomatico di tutti i Paesi del mondo. Ed è stata sempre di papa Francesco la decisione di far venire a Roma l’arcive- scovo, per deporre a Palazzo San Macuto, e non far spostare l’organismo parlamentare a Londra, per ascoltarlo «a domicilio», in considerazione del suo status.
Le motivazioni di papa Francesco non solo nel consentire l’audizione, ma in qualche modo nel deciderla, dopo aver ricevuto la richiesta del presidente della Commissione Fioroni, sono state probabilmente due. Innanzitutto voleva aprire alla possibilità che si potesse fare nuova luce sul caso, cioè collaborare con la giustizia. E poi c’era la convinzione che solo il chiarimento di alcuni snodi importanti della recente storia italiana potevano consentire anche al Vaticano di voltare pagina. Visti gli stretti intrecci tra le vicende finanziarie vaticane, lo IOR di Marcinkus, le trame della P2, dei servizi segreti dell’Est, e le vicende cilene e del Nicaragua di Ortega ( che ancora oggi dà riparo al Br Alessio Casimirri condannato a sei ergastoli che era in via Fani, figlio del numero due della Sala stampa della Santa Sede per trent’anni) con il Vaticano.
(…)
Nonostante quello che accadde a Castel Gandolfo la sera del 6 maggio, secondo la testimonianza del generale Cornacchia, la situazione rimase aperta fino alla fine tanto che, secondo quanto riferito da monsignor Fabbri alla Commissione Moro 2, l’8 maggio 1978 la Santa Sede era in attesa di un segnale positivo per il rilascio di Moro, che poi non arrivò.
È quello che emerge anche dalla testimonianza di padre Carlo Cremona, secondo il quale, negli ultimi giorni del sequestro, vi era maggiore ottimismo fra i più stretti collaboratori del Papa.
Già nel 1991 egli aveva raccontato che, nel corso della giornata dell’8 maggio, la cerchia dei più stretti assistenti di Paolo VI era stata allertata perché avrebbe potuto ricevere una telefonata in cui si annunciava l’accettazione della proposta da parte delle Br e l’avvio delle procedure per la liberazione dell’ostaggio. Anche il Pontefice attese trepidante fino all’ultimo la felice notizia, e «i patti erano che qualcuno avrebbe dovuto visitare immediatamente Moro nella sua prigione e portargli il conforto del Papa». (…)
Chi ingannò Papa Montini?
(….) La vicenda di Moro non fu per Paolo VI solo una tragedia ufficiale e politica, ma anche umana e personale. Un dramma destinato ad accelerare la decadenza psicofisica del Pontefice che morirà il 6 agosto 1978 proprio a Castel Gandolfo, la villa pontificia segnata da quella sciagura.
E nellʼottobre 2018, quarant’anni dopo, quarant’anni dopo la sua morte e quarant’anni dopo la morte del suo amico Aldo Moro, sarà proclamato santo da Papa Francesco.
Estratto ed update del capitolo "La villa pontificia" del libro "Moro, il caso non è chiuso " (LINDAU)
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